9 maggio ’78, la mafia assassinava Peppino Impastato, le BR Aldo Moro

9 maggio ’78, la mafia assassinava Peppino Impastato, le BR Aldo Moro

Il 5 gennaio 1948 nasceva Peppino Impastato, un giovane siciliano come tanti con i suoi sogni e le sue speranze, ebbe la fortuna (o sfortuna) di nascere a Cinisi, un paesino vicino Palermo; di avere padre, zio e altri parenti mafiosi.
Impastato, infatti, era un cognome molto conosciuto e rispettato in quei paesini e tra i mafiosi che comandavano, erano sindaci, consiglieri, regolavano i mercati, gestivano e decidevano tutto, pure la vita e la morte dei loro compaesani.

Peppino sin da ragazzo si accorse che quello non era un sistema sano, che quei rapporti e quei modi erano profondamente ingiusti, criminali e macchiati di sangue.
Così, forse non rendendosi veramente conto di quanto fosse grande quel problema, decise coraggiosamente di combatterlo.

Nel 1965, all’età di diciassette anni, assieme ad uno stretto gruppo di giovani, fondò il giornalino “L’idea socialista” dove si analizzavano i diversi temi del mondo del lavoro, dell’emigrazione e degli aspetti sociali, politici ed economici legati all’ambiente, con l’intendo di informare, sensibilizzare ma anche per denunciare i poteri e le azioni criminali che si consumavano in quel territorio.
Non fu di certo semplice per Peppino e gli altri ragazzi scrivere tutte quelle cose che mai nessuno, pur conoscendole, si era permesso di dire.
Infatti il giornale, subito dopo l’uscita del primo numero, ricevette una denuncia ai carabinieri fatta dal sindaco democristiano Pellerito, cognato del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti, perché turbato dal contenuto critico nei confronti di una mentalità troppo chiusa e legata a secolari pregiudizi che imponevano omertà e silenzio alla popolazione. Perciò tutta la redazione dovette recarsi in caserma e dopo vari interrogatori “L’idea” su dichiarata fuorilegge perché costituiva pubblicazione clandestina.

Vari giornali di quel tempo si occuparono di questa vicenda. “L’Ora” scrisse: “I giovani redattori dell’Idea avevano tentato di gettare una pietra nelle acque stagnanti della vita del loro Paese e sono stati frenati nel loro coraggioso tentativo. Si tenta così di allevare piatti conformisti di cui non si conosce la probabile futura evoluzione”. Un altro giornale scrisse: “I ragazzi ora hanno il bavaglio, non soffoca ma stringe, ed è tutto legale”.

L’idea socialista” rimase bloccata per un anno a causa del processo, ma nel 1966 riprese le attività con maggior caparbietà ed impegno, riprendendo il progetto già iniziato e proseguendo con una vera e propria campagna di denuncia e libera informazione.
Arrivò il giorno in cui uscì in prima pagina l’articolo a firma di Giuseppe Impastato dal titolo “La mafia è una montagna di merda” che provocò pesanti intimidazioni a tutta la redazione e inoltre, dopo vari battibecchi e litigi all’interno della famiglia Impastato, Peppino verrà cacciato di casa da suo padre e allontanato da tutti i parenti stretti sotto la cosca del boss Badalamenti.

Peppino si dedicò alla scrittura, alla lettura, si iscrisse al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria che poi confluirà nel Partito Comunista Italiano (PCI) e aiutato dagli amici, mise su una radio libera (Radio Aut) per continuare la sua azione e trasmettere dei programmi di denuncia e di satira politica.
Qui inventò addirittura un nuovo modo di fare giornalismo, creando dei siparietti irriverenti che ridicolizzavano e sbeffeggiavano i mafiosi e i politici locali, storpiandone il nome, raccontando ciò che succedeva in quella Cittadina che lui chiamava “Mafiopoli” (riferendosi a Cinisi) e degli affari criminali nel “maficipio”, rivelando a tutti che quei tanti morti notificati come suicidi in realtà erano stati assassinati.
Ben presto pure questa sua attività divenne troppo scomoda per Cosa nostra, per i politici collusi ma soprattutto per “Tano seduto” (Gaetano Badalamenti).

Peppino Impastato avrebbe potuto scegliere di andarsene. Addirittura anni addietro, proprio suo padre, per assecondare le richieste dei capimafia e un po’ per toglierselo di torno, gli suggerì di trasferirsi da dei parenti in America, ma lui invece decise di restare e continuare a lottare per i suoi ideali di libertà e giustizia, per la sua Città, la sua terra, i suoi amici, il fratello minore Giovanni e sua madre Felicia.

Così, tra una lettura e una trasmissione in radio, tra poesie, articoli e manifestazioni in piazza, nel 1978 decise di candidarsi al Consiglio Comunale per provare a cambiare, nel suo piccolo, tutto quello che per molti era ormai normalità, rassegnazione per ciò che “è sempre stato così”, per il “rispetto” che si deve agli “uomini d’onore” e il loro volere.
Voleva provare, con la sua tenacia a cambiare rotta a quel sistema malato mettendosi contro tutti, mafiosi e cittadini consenzienti, scendendo in piazza con quei pochi che lo sostenevano per iniziare a sradicare tutto il marcio.

La mattina del 9 maggio del ’78, Peppino avrebbe dovuto tenere l’ultimo comizio in piazza per chiudere la sua campagna elettorale, ma quel palco e quella piazza saranno vuoti, mentre da Radio Aut il suo caro amico Salvo Vitale annuncia: “Non ci sarà nessun comizio e non ci saranno più altre trasmissioni. Peppino non c’è più, è morto, si è suicidato. No, non sorprendetevi perché le cose sono andate veramente così. Lo dicono i carabinieri, il magistrato lo dice. Dice che hanno trovato un biglietto: «voglio abbandonare la politica e la vita». Ecco questa sarebbe la prova del suicidio, la dimostrazione. E lui per abbandonare la politica e la vita che cosa fa: se ne va alla ferrovia, comincia a sbattersi la testa contro un sasso, comincia a sporcare di sangue tutto intorno, poi si fascia il corpo con il tritolo e salta in aria sui binari. Suicidio. Come l’anarchico Pinelli che vola dalle finestre della questura di Milano oppure come l’editore Feltrinelli che salta in aria sui tralicci dell’Enel. Tutti suicidi. Questo leggerete domani sui giornali, questo vedrete alla televisione. Anzi non leggerete proprio niente, perché domani stampa e televisione si occuperanno di un caso molto importante. Il ritrovamento a Roma dell’onorevole Aldo Moro, ammazzato come unAldo Moro cane dalle brigate rosse. E questa è una notizia che naturalmente fa impallidire tutto il resto. Per cui chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia, ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato. Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino. Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci, lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia. E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu miscato cu niente.” (Monologo tratto dal film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana).

Pochi giorni dopo, il 14 maggio, gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale.

Solo nel 2001 Felicia, la madre di Peppino, è riuscita ad ottenere giustizia. Dopo 23 anni di battaglie, indagini, insabbiamenti e calunnie, la Corte d’assise ha riconosciuto che è stato vittima di mafia riconoscendo e condannando il colpevole Vito Palazzolo a trent’anni di reclusione e l’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Peppino Impastato.

Se oggi il cognome Impastato è sinonimo di antimafia, vuol dire che quelle idee erano sane, che quelle lotte contro le catene dell’oppressione, della paura e dell’omertà erano giuste, che quella voglia di cambiamento portava alla strada delle libertà, dei diritti e della giustizia; vuol dire che coloro che ci hanno creduto e si sono battuti anche a costo di rompere il rapporto con il padre e a costo della loro stessa vita per continuare a gridare fino alla fine che “la mafia è una montagna di merda”, oggi devono essere ricordati.

Calogero Aquila

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