Freddie Mercury, colonna sonora della nostra era. Un insospettabile fan indaga sul segreto dell’immortalità dei Queen

Freddie Mercury, colonna sonora della nostra era. Un insospettabile fan indaga sul segreto dell’immortalità dei Queen

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A quarant’anni da “Bohemian Rhapsody” i Queen tornano (rimasterizzati) nei cinema. Un balsamo sul malessere antropologico dell’Occidente

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Non sono la band che ha venduto di più nella storia, né quella che ha guadagnato più soldi. Rolling Stone li mette solo al 52esimo posto fra i 100 artisti più grandi della musica pop e rock, in una classifica dove al primo posto ci sono i Beatles, al secondo Bob Dylan e al terzo Elvis Presley. Eppure le loro hit riappaiono continuamente sotto forma di colonna sonora nelle pubblicità, i loro migliori concerti sono riproposti anno dopo anno sui canali tv specializzati o al cinema, su YouTube i videoclip delle loro canzoni vantano decine di milioni di visualizzazioni (la versione più cliccata del video di uno dei loro pezzi più famosi, Bohemian Rhapsody, conta quasi 125 milioni di visualizzazioni) e il cantante del gruppo, Freddie Mercury, è il più vivo di tutti i morti della storia del rock.
Quarantacinque anni dopo la loro nascita e 23 anni dopo la morte del loro leader carismatico, i Queen continuano a essere snobbati dalla critica ed esaltati dalle masse. I biglietti del Forum di Assago del concerto del 10 febbraio scorso (dal 2011 il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor hanno ripreso a fare concerti con alla voce Adam Lambert, ndr) sono andati esauriti con mesi di anticipo, e quando dal 16 marzo per tre giorni in decine di sale in tutta Italia si potrà assistere a Queen Rock Montreal, il concerto del 1981 rimasterizzato in ultra HD mai visto prima, è certo il pienone ovunque. In questi casi si parla di “fenomeno di costume”, di successo fondato sull’astuta ricetta di una musica commerciale e orecchiabile. Senza dimenticare il decisivo valore aggiunto della voce formidabile di Freddie Mercury, perbacco. Le sue sonorità infantili disposte su un’estensione vocale impareggiabile (tre ottave piene), il timbro drammatico che trasmuta in ironico e viceversa, la nitidezza che non viene mai meno, qualunque sia il volume del cantato. Non solo la voce: la grande energia che emetteva dal palco dei concerti, abbinata a trovate sceniche perfettamente calzanti con lo spirito del gruppo.

Ma le ragioni del successo eterno dei Queen non sono tutte qui, non sono solo queste. C’è dell’altro. Altro per il quale qualcuno ha creduto nell’azzardo di assegnare al sottoscritto – un inviato e specialista di questioni internazionali – anziché a un critico musicale, un pezzo sulle ragioni dell’eterna attualità dei Queen e del loro frontman.

Una scoperta esaltante
Ho scoperto il gruppo molto tardi, nel 1990, quando il più giovane dei miei fratelli ebbe l’idea di regalarmi Greatest Hits II per un compleanno. Fino ad allora per me i Queen erano solo un gruppo rock commerciale che oscillava indeciso fra il progressive e l’heavy metal. E Freddie Mercury era il tizio del video di I Was Born to Love You, un macho inguainato in un bizzarro vestito bianco che lasciava scoperto il torace villoso mentre rincorreva un’incantevole bionda e si faceva notare per la voce penetrante che riscattava un pezzo altrimenti zuccheroso. «Chi è quel bell’uomo?», si meravigliava mia nonna, appassionata delle romanze operistiche ed estranea al mondo dei videoclip. L’altro fratello interveniva: «Nonna, guarda che non è come sembra…».

Ascoltai la compilation e fu una rivelazione. Altro che orecchiabile: il rock pop di Freddie e compagni era trascinante, esaltante, esuberante. Liberava qualcosa che stava intrappolato nel profondo. Musichette facili facili ma costruite dentro a sfarzosi arrangiamenti barocchi. I pezzi organizzati in movimenti diversi per tempo come nella musica colta. Ascoltavi, e nel giro di pochi secondi non sentivi più il peso delle frustrazioni della vita, sentimenti e sensazioni sempre più intense prendevano a vibrare e ti sentivi risospinto in un’infanzia felice che non credevi di poter ricordare.

Ne ebbi la conferma un giorno, mentre roteavo Adele ballando sulle note di It’s a Kind of Magic. Mia figlia aveva due anni e si godeva estasiata quel volo, assicurata alle braccia di suo padre. A un certo punto con occhi giocondi e sognanti se ne venne fuori: «In Cielo Freddie Mercury fa ridere i bambini. Cadono tutti per terra e ridono». L’immagine della rockstar morta di Aids che in Paradiso fa il girotondo coi bambini e poi si buttano tutti giù per terra e ridono mi intenerì. Certo, quando si hanno due anni la barriera fra la vita e la morte non fa paura, il Cielo è un luogo che sta dentro a una continuità geografica con la Terra. Non si torna indietro solo per ragioni di lontananza e perché di là si sta meglio.

freddie-mercury-queen-queen-rock-montreal-hMolti anni dopo ascoltai di nuovo parole che collocavano il cantante dei Queen in un territorio dove la morte non aveva potere. Stavo sorbendo l’espresso mattutino dentro a un bar di tendenza in corso Sempione. La radio trasmetteva Don’t Stop Me Now. Su YouTube c’è un video dei goal più belli di Kakà con la maglia del Milan e la colonna sonora è quella: assolutamente perfetta per la combinazione di discese irresistibili e colpi geniali che caratterizzavano il trequartista brasiliano. Il barista e un avventore, due giovanotti sui 24-25 anni sul cui orientamento sessuale alternativo non avevo dubbi, stavano stancamente conversando a bassa voce. Sull’assolo di chitarra di Brian May che bissa il cantato travolgente di Mercury il barista ebbe un’impennata: «Freddie è morto più di vent’anni fa, ma è più vivo di te, al suo confronto il morto sei tu!», disse in tono colpevolizzante all’amico.

Omosessualità, faccenda profonda
L’omosessualità è faccenda che ha un posto di rilievo nella saga dei Queen, e in particolare in quella del suo leader. Non è solo una cosa attinente alla sfera personale e privata, il suo influsso sulla modalità espressiva del gruppo è decisivo, e non parliamo solo dell’estetica di Freddi Mercury, del suo linguaggio del corpo e dell’ambiguità del nome del gruppo. La questione è molto più profonda, non si riduce nemmeno a un’archeologia del coming out, ad allusioni in codice cifrato in un’epoca in cui il combinato disposto del conservatorismo politico al potere (Reagan e Thatcher) e dell’epidemia dell’Aids di cui gli omosessuali erano accusati di essere gli untori sconsigliavano qualunque aperta rivendicazione lgbt. Il nesso fra omosessualità, musica ed estetica dei Queen, durevole successo di massa della loro produzione, è qualcosa su cui è urgente scrivere adesso prima che sia troppo tardi, prima cioè che entrino in vigore norme liberticide come il decreto Scalfarotto, che renderanno pericoloso manifestare un pensiero non allineato, per quanto ragionato, su certi argomenti. Ma prendiamola un po’ alla lontana.

C’è una frase di un’intervista a Mercury che rappresenta ai miei occhi il sesamo per capire le ragioni del sempiterno successo dei Queen: «Sul palco sono così potente che penso di aver creato un mostro. Quando mi esibisco sono un estroverso, ma dentro sono un uomo completamente differente». Un’identità teatrale tutta emozioni e passioni in contrasto con un’identità reale della quale si tace completamente. Come si tace di un’onta, direbbe Rilke. Ancora più chiaro in un’intervista del 1974 a Melody Maker: «L’ultima cosa che vorrei è dare alla gente un’idea esatta di chi sono. Non intendo mettermi in una precisa cornice, per poi dire “ecco, questo sono io”, e tantomeno “questo è tutto quello che sono”. (…) Però credo che sia l’idea mistica, non il fatto di sapere la verità su qualcuno, che risulta davvero attraente».

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Che cos’è questa idea mistica che risulta attraente? È la possibilità realizzata di far provare emozioni, sensazioni forti e piacevoli, vibrazioni fisicamente e psicologicamente gratificanti attraverso la rappresentazione dei sentimenti in forma enfatica e teatralizzata. La musica dei Queen e le performance di Freddie Mercury permettono a chi ascolta e/o assiste di abbeverarsi all’acqua che rianima una vita emotivamente arida, di sentire lievitare ed espandersi dentro di sé sentimenti fino a quel momento sepolti o rattrappiti, di sentirsi investiti da un’onda di vitalità fisica, quella che Freddie esprimeva sul palco dei concerti o in alcuni videoclip. Il risveglio del corpo è contemporaneamente sensoriale e muscolare, epidermico e vigoroso.

Tutto ciò avviene sulla base di una finzione, di una rappresentazione di sentimenti inautentici, di una simulazione, di una recitazione costantemente sopra le righe. Freddie prendeva l’idea platonica di un sentimento o di un’emozione e la riempiva all’inverosimile di musica, la gonfiava come un dirigibile e poi la faceva volare sopra le teste di tutti con la sua voce incantatrice. Faceva quello che cantava in The Great Pretender: «Troppo reale è questa sensazione di finzione, troppo reale quando sento quel che il mio cuore non può nascondere. Oh, sì, sono il grande commediante, ridente e allegro come un clown, sembro essere quello che non sono, capisci?». Enfatizzare e teatralizzare, questi sono gli imperativi. Del resto Mercury aveva definito i Queen «la versione musicale della filmografia di Cecil DeMille». DeMille è il regista dei kolossal epici degli anni Trenta-Cinquanta: Cleopatra, I dieci comandamenti, Sansone e Dalila, eccetera.

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La musica dei Queen risponde a un bisogno sociale diffuso, è un balsamo da strofinare sopra il malessere antropologico dell’uomo occidentale. È l’equivalente musicale della psicologia comportamentalista da bancarella, quella del potere del pensiero positivo: sii ottimista e ti sentirai meglio, continua a sorridere e i pensieri cupi se ne andranno, visualizza l’immagine di te stesso che agisce con successo e successo otterrai. Psicanalisti di scuole diverse – dal post-reichiano Alexander Lowen allo junghiano Claudio Risé, solo per dirne due – convergono nella diagnosi che le nevrosi dell’uomo di oggi dipendono dalla frattura fra l’io e il sé, dalla mancata integrazione fra psiche e corpo. La cultura dominante è sempre più centrata sui rapporti virtuali e sul narcisismo, il corpo è ridotto alla sua immagine, e la conseguenza è l’impoverimento emotivo, sentimentale, vitale. La via d’uscita che la musica dei Queen propone è afferrare l’emozione che non si prova realmente, musicarla, portarla sul palco davanti a 50 mila persone e recitarla nel modo più enfatico possibile: lieviterà fino a diventare esperienza psichica e fisica soddisfacente.

Coscienza del dramma personale
Tutta l’ironia e l’autoironia di cui il gruppo e il suo leader danno prova, tutta la vena parodistica che pervade la loro musica (i Queen sono la parodia permanente dell’heavy metal, della musica operistica, del gospel, e chi più ne ha più ne metta) sono il logico pendant della consapevolezza dell’operazione che conducevano. Che è anche, in Freddie Mercury, coscienza amara e sarcastica del proprio dramma personale. Della sua vita affettiva dice: «Godo a essere una troia. Godo a essere circondato da troie. La noia è la più grave malattia del mondo, tesoro… A volte penso che la vita debba essere qualcosa di più che non correre per il mondo come pazzi, ma non sopporto di annoiarmi». E ancora: «Ho avuto più amanti di Liz Taylor – maschi e femmine – ma le mie storie non sembrano mai durare. Sembra che io divori la gente e la distrugga».

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Per Lowen l’omosessualità e la bisessualità altro non sono che manifestazioni della personalità narcisista (in Italia Lowen è stato tradotto da Feltrinelli: altri tempi), e all’uomo Freddie Mercury si attaglia perfettamente una frase di un testo dello psicanalista americano: «L’io rigido è come un cavaliere rigido in sella, che rischia di essere sbalzato a ogni movimento (sentimento) brusco. Per l’io la salvezza sta allora in un corpo insensibile, quasi privo di emozioni. Ma proprio questa insensibilità crea una fame di sensazioni che porta all’edonismo tipico di una cultura narcisistica» (Il narcisismo, pagina 154).

Freddie Mercury ha fatto con la musica quello che Van Gogh ha cercato di fare con la pittura: liberarsi della propria sofferenza interiore attraverso la forma artistica. Nessuno dei due ci è riuscito. Lo strumento non è adeguato allo scopo. Ma l’errore ce li fa sentire fratelli e ci mette ancora una volta davanti al consueto mistero: la creatività è indissociabile dalla sofferenza. I doni di bellezza che gli artisti ci lasciano – la musica ilare e bambina di un istrione gaio – grondano di un dolore insostenibile.

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