Tra le tante pratiche di preparazione al matrimonio che si svolgevano a Barrafranca (EN) e in tutto il meridione vi era la compilazione della “carta di dote” o “carta dotale”, tradizione attestabile fino agli anni ’50. Era una consuetudine tipica della cultura meridionale mettere nero su bianco i beni che le rispettive famiglie donavano ai futuri sposi. La dote non era altro che l’insieme dei beni che la famiglia della sposa dava al marito e viceversa, creando così una base nella formazione della nuova famiglia. Conosciuta anche come “capitolo matrimoniale”, “minuta”, “carta dotale”, il momento della sua stesura era, per le famiglie, un avvenimento molto importante perché si rendevano concreti gli accordi patrimoniali relativi alla dote. A garanzia dell’esecuzione dei patti sanciti, intervenivano i testimoni. Le famiglie più ricche andavano davanti al notaio, le famiglie contadine, invece, stipulavano la carta di dote a casa. La dote doveva essere proporzionata allo status sociale degli sposi. Nella società contadina siciliana era diffusa l’abitudine che la sposa portasse in dote al marito un piccolo appezzamento di terra, del bestiame o attrezzi utili al lavoro dei campi. Di obbligo invece era di portare in dote una cassapanca (cascia in siciliano) che conteneva il corredo, come lenzuola, camicie, grembiuli, biancheria e altro che la madre della sposa e la sposa stessa avevano cucito. Da qui il detto siciliano: “A robba ‘na cascia e a figghia ‘na fascia” (La dote nella cassa e la figlia nella fascia): difatti era consuetudine nelle famiglie contadine iniziare a preparare il corredo dopo la nascita di una figlia (ossia appena nati), corredo che sarebbe stato conservato nella cassapanca (cascia) in attesa del matrimonio.
Nel giorno concordato tra le parti, a casa della ragazza, dove oltre ai genitori erano presenti anche zii, nonni e altri parenti, si compilava una lista scritta, in cui si elencava ciò che i rispettivi capifamiglia avrebbero consegnato ai due promessi sposi, all’atto del matrimonio; i parenti convenuti ne erano testimoni. Tra i nobili e i borghesi la lista, che assumeva valore di un vero e proprio contratto, si faceva su carta bollata. Il corredo della sposa era considerato a pezzi e questi formavano un gruppo, p. es. quattro camicie, quattro coperte, quattro paia di calzoni ecc. Si elencavano, in modo analitico, il mobilio, il corredo, come indumenti, lenzuola, le scarpe, le stoviglie. Tutto dipendeva dalla disponibilità economica della famiglia. Per lo sposo, l’elenco poteva contenere, oltre agli indumenti personali, un appezzamento di terra da lavorare, un alloggio autonomo, se non si andava a convivere nella casa paterna, un asino, un maiale vivo o macellato, animali da cortile, indumenti e un certo quantitativo di grano da macinare e in parte da seminare.
Anni fa ebbi tra le mani la “Carta di dote” che mio nonno materno Giuseppe fece scrivere in occasione del matrimonio della sua primogenita: scritta su un foglio uso bollo, la carta è datata 13 gennaio 1951, scritta per mano della sorella Filippa. Ne riportiamo alcune parti (così come sono state scritte): «Carta di dote che fa alla prima figlia io qui sotto scritti… lasciano alla propria figlia… prima tutto £ 100.000 dico cento mila tempo tre anni… secondo mobile un comò un comodino un moarro una tavola da mangiare… Biancheria 3 coltri una bianca una canalia una il colore che viene 3 paia di lenzuola 2 ricamate e uno con ricamo 6 paia di cuscini 3 pezzi di tovaglia una di casa una aspugna uno lavorato… uno materazzo 8 camicie… e la zita come si trova 2 abiti 2 sottane un partò 2 paia di scarpe ricevi i più distinti saluti.»
FONTI:Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, volume secondo, Palermo, 1889; Federica Proni, La dote e le sue carte, TiPubblica, 2017; Fonti orali
Rita Bevilacqua