Mattinata emozionante e carica di significative riflessioni quella di Lunedì 29 Marzo, che ha visto numerose classi dell’Istituto Falcone di Barrafranca impegnate nel quarto dei cinque seminari programmati nel corrente anno scolastico in collaborazione con il Comitato 3 Ottobre. L’evento, che è parte del progetto di informazione e sensibilizzazione delle scuole ideato dal Comitato 3 Ottobre, è stato dedicato al ricordo della tragedia avvenuta al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013 e ha visto la partecipazione anche di Vito Fiorino, uno dei primi pescatori che la notte del 3 ottobre ha partecipato alle operazioni di soccorso, riuscendo a portare in salvo 47 migranti. Il commosso racconto di Vito, la sua esortazione a superare l’indifferenza, gli interventi di Tareke Brahne che ha ripetutamente invitato i ragazzi a informarsi sulla realtà che li circonda, sono riusciti a suscitare domande e riflessioni che hanno animato un interessante dibattito.
Emozioni e riflessioni non hanno certo avuto termine alla chiusura del collegamento se qualcuno degli studenti ha continuato a rifletterci su. Tra i feed back che ci sono pervenuti, vi proponiamo la riflessione di Alice Salamone, della classe IV B del Liceo Scientifico.
“Cara madre, […] il viaggio è stato lungo e difficile, posso assicurarti che dal nostro paese fino al mare il percorso è stato davvero lungo e faticoso, per fortuna l’abito buono e le scarpe le avevo messe in saccoccia, così non si sono rovinate.
Ti dicevo del viaggio, quello via terra è stato duro, ma ancora peggiore è stata la navigazione. L’imbarcazione era piena, eravamo tutti ammassati: uomini, donne, bambini. Per passare il tempo alcuni intonavano i canti della nostra assolata ed arida terra ma la maggior parte temeva di finire i suoi ultimi giorni nel fondo degli abissi; qualcuno diceva che era già successo in passato. Abbiamo trovato burrasca, molti hanno iniziato a pregare, altri urlavano che gli spiriti maligni avevano maledetto quella nave e tutti quelli che c’erano dentro. […]
Appena siamo arrivati ci hanno fatto sedere a terra, poi ci hanno chiesto i documenti (molti di noi non li avevano e sono stati duramente interrogati), uomini armati si sono piazzati davanti a noi, ci controllavano per evitare che qualcuno di noi tentasse la fuga. Poi ci hanno fatto alzare e, uno ad uno, ci hanno sottoposto a delle visite mediche. Alcuni di noi sono rimasti nella stanza del dottore troppo a lungo, erano debilitati, ed è stato come se dentro di me sentissi che alcune di queste persone in realtà quell’infermeria non l’avrebbero mai più abbandonata. Nei miei incubi sento ancora le loro voci. Per giorni sono stato chiuso in questo centro di permanenza su un isolotto in mezzo all’acqua. […]
La gente del posto è vestita bene, pulita, elegante, ma ci guarda con diffidenza e disprezzo. Non vive negli stessi posti dove abitiamo noi, anzi, quei posti li evita. L’amico a cui sto dettando questa lettera, uno colto, mi ha fatto vedere un giornale, mi ha detto che per i cittadini di questa nazione siamo tutti stranieri, ma alcuni di noi sono peggio degli altri. Noi siamo tra quelli peggio. Dicono che la mia gente insulta le donne, le tratta male, le picchia e le uccide, dicono che siamo negroidi con poco cervello, che se la nostra terra è così è perché ce lo meritiamo. Il mio datore di lavoro lancia epiteti contro quelli come noi, lo fa ridendo, crede di essere simpatico, ed infatti tra di loro ridono. Gli insulti sono le prime cose che ho appreso di questa lingua così strana e difficile. Eppure madre tu mi hai insegnato a rispettare le donne, ad amare colei che a mia volta sarà la madre dei miei bambini, allora perché questi uomini ci ritengono così brutali ed arretrati?
Perché ci giudicano con tanta superficialità? Si, c’è violenza nel nostro paese, molti dei nostri connazionali sono delinquenti ed hanno provocato molti morti, ma non siamo tutti uguali. Io vivo nella paura, temo il futuro, la mia terra mi ha rifiutato, la terra dei miei sogni anche, ed ora mi sento figlio di nessuno.“
Il testo è tratto dalla lettera di un italiano che, nel 1906, scrisse alla madre dopo essere arrivato in America. Come ci insegna la realtà di tutti i giorni, la storia si ripete: proprio come accadde nella prima metà del “Secolo breve” a tantissimi italiani, oggi migliaia e migliaia di migranti provenienti dall’Africa sbarcano sulle coste dell’Europa per fuggire alla povertà e trovare un futuro migliore.
Oggi, 29 marzo 2021, abbiamo preso parte ad un incontro con Tareke Brahne, presidente del Comitato 3 Ottobre, e con Vito Fiorino, primo soccorritore di quel terribile naufragio del 3 ottobre 2013, in cui 366 migranti hanno perso la vita a poche miglia dal porto di Lampedusa e solamente 155 hanno avuto la fortuna di sopravvivere alla tragedia.
Oltre al racconto di Vito Fiorino, ciò che mi ha colpito di più della videoconferenza è stato ciò che Tareke ci ha raccontato sulla sua esperienza come emigrato dal suo paese di origine (l’Eritrea): per lo Stato italiano lui era solo un numero (nel suo caso, 18883); non era più un essere umano, ma uno dei tanti “problemi” che doveva affrontare l’Italia.
La disumanizzazione subìta appena arrivati in Italia però non è l’unico scoglio che gli extracomunitari provenienti dalla loro terra Natale devono superare; il viaggio stesso è così lungo e ricco di difficoltà che spontaneamente viene da chiederci: “perché così tante persone fuggono dalla loro terra per arrivare in un luogo completamente estraneo?”. Tareke ha parlato di come molti africani oggi arrivano a scappare dalla propria Terra spinti dalla voglia di dimostrare di essere qualcuno, di iniziare a vivere dove le pari opportunità per tutti forse non rappresentano solo un’utopia; vorrebbero iniziare ad essere utili per la comunità e dare un valore alla loro vita. Questo, causato dalla condizione di non poter esprimersi vivendo sotto dittatura, rappresenta sicuramente una motivazione così forte da spingere migliaia di esseri umani a rischiare la vita pur di sperare di vivere serenamente.
Vito ha affermato: “tutti siamo, siamo stati o saremo migranti” proprio come testimonia la lettera dell’italiano, e come testimoniano le storie dei profughi che oggi cercano fortuna.
L’incontro di oggi mi ha fatto capire che l’emigrazione è sempre esistita ed esisterà sempre: ciò che speriamo di cambiare sarà l’approccio di noi fortunati nati in condizioni benestanti verso coloro che hanno bisogno. Non ci possiamo permettere di essere egoisti e non aiutare coloro che si trovano in difficoltà, perché questo significherebbe comportarci proprio come coloro che, nel 1900, denigravano noi emigrati italiani in cerca di un mondo migliore.