Un’antica pratica devozionale che si svolgeva a Barrafranca (EN) era quella dei VIRGINEDDI. In realtà tale pratica è presente in molti paesi della Sicilia e si svolge in occasione della festa del patriarca San Giuseppe (le tavolate stesse sono chiamate “di virgineddi”): vedi Enna, Catenanuova (EN), Regalbuto (EN), Lascari (PA), Alimena (PA), Motta Sant’Anastasia (CT), Castel di Lucio (ME), tanto per citarne alcuni. L’origine di questa pratica si perde nel tempo e risale al passato agricolo-rurale della società. Si tratta di una sorta di ex voto al Santo patriarca, San Giuseppe, protettore dei poveri, degli orfani e delle ragazze nubili. Date le condizioni d’indigenza generalizzata in cui anticamente si trovava la gente, si capisce come la preparazione della tavola a San Giuseppe era un vero sacrificio poiché si offriva agli altri la quantità di cibo sufficiente a sfamare per intere settimane tutta la famiglia.
La tavola porta a compimento un voto per grazia ricevuta, chiesto per se o per i propri cari, ma la sua realizzazione è frutto di una collaborazione sociale ampia, confermandone l’identità e rinsaldandone i legami. C’era anche chi prometteva di realizzare la tavola chiedendo di casa in casa o prodotti alimentari oppure offerte in denaro (secondo un’usanza ormai del tutto abbandonata). Attraverso l’affermazione del diritto-dovere di chiedere e di dare, il devoto (in genere erano le donne) dimostrava al Santo la sua gratitudine per la grazia ricevuta, riaffermando il diritto di tutti alla sopravvivenza e ravvivando vincoli essenziali di solidarietà. Infatti, le “tavolate” (così come sono chiamate a Barrafranca) erano organizzate dalla famiglia, coadiuvata dalla spontanea iniziativa di altri nuclei familiari. C’era anche chi realizzava la tavola a proprie spese con enorme sacrificio, anche se erano bene accette le eventuali offerte in natura o in denaro. L’organizzazione seguiva una regola base: promessa di realizzare una o più tavole; le spese per la loro realizzazione dovevano gravare sulla famiglia organizzatrice, anche se c’era chi, nella promessa, decideva di andare a chiedere ai vicini un’offerta; scelta dei personaggi che potevano essere figuranti la Santa famiglia: Maria, Giuseppe e Gesù Bambino, oppure giovani adolescenti, i Virgineddi: comunque dovevano far parte di ceti poveri o indigenti; la preparazione delle pietanze che variavano da 19 a un numero non definito, secondo la “promessa” fatta; la preparazione delle pietanze e l’allestimento della tavola doveva avvenire grazie al contributo di amici o parenti. Lo stesso termine VIRGINEDDI ci dà già l’idea di quanto fosse radicato nella religiosità popolare il legame spirituale non solo con il Patriarca Giuseppe, che tra i tanti patronati ha anche quello di essere protettore delle vergini, ma con la Santa Famiglia e Maria in particolare. Come Giuseppe accolse e aiutò la giovane “vergine e madre Maria”, così i devoti, accogliendo nelle loro tavole le giovani donne vergini e indigenti, chiedono per loro aiuto e protezione. Ritornando alla pratica devozionale, essa si svolgeva il 19 marzo o un qualsiasi mercoledì (giorno dedicato al Santo) del mese di Marzo. Consisteva in un invito a pranzo di giovani ragazze indigenti e vergini, ossia non sposate. Difatti le ragazze dovevano avere un’età inferiore ai 18 anni. “L’omu di vintuttu e a fimmina di diciuttu” sentenziava un antico proverbio siciliano, marcando come l’età da marito oscillava intorno ai diciotto anni. Le giovani che dovevano partecipare alla “tavola” (potevano essere tre come tre sono i personaggi della Santa Famiglia o un numero non definito) dovevano essere vestite di bianco, simbolo di purezza e dovevano digiunare dalla mattina fino a pranzo. Fino al 1970, anni in cui la chiesa di San Giuseppe fu chiusa al culto, la signora che aveva fatto l’ex -voto e le ragazze-virgineddi andavano ad assistere alla messa dell’aurora nella chiesa di san Giuseppe (in seguito si andava alla chiesa di San Francesco).
Terminata la funzione, andavano a casa della signora per sedersi alla tavola imbandita in onore di San Giuseppe a mangiare un lauto pasto: la “pasta di san Giuseppe” un minestrone di lasagne insaporito con finocchietto selvatico, broccoletto, chiamato taghiallassu, e un mix di legumi: ceci, lenticchie e fagioli; frittate di verdure, come tagghiallassu finocchietto selvatico, spinaci, brucculu (cavolfiore) o semplici frittate di uova e pane grattatto, polpette di patate, uova sode su cui erano inseriti, mediante stecchini, olive nere, chiamati munachiddi, (la carne era proibita, poiché si era in Quaresima) e i dolci come pagnuccata, pasta siringata, sfingi, armuzzi santi, cassateddi, crispelle di riso, cannoli con crema e ricotta, ‘mbanata cu a ghiacciata (pan di spagna con sopra la glassa) e altro. A fine pasto venivano dati finocchi e arance.
Dopo aver pranzato, le giovani verginelle venivano congedate, dando loro il “pane di san Giuseppe”: un pane particolare realizzato in varie forme, reso lucido dal bianco dell’uovo e cosparso di semi di papavero che in dialetto sono chiamati “girgiullina”. C’era chi dava anche del denaro, tutto dipendeva dal tipo di promessa fatta al Santo. Con gli anni la tradizione ha subito alcune modifiche: come la scomparsa dell’abito bianco delle ragazze, che potevamo vestirsi con abiti eleganti; il consumo di pietanze diverse a quelle tradizionali; il ricevere in dono del denaro. Purtroppo i cambiamenti sociali della società barrese hanno portato alla definitiva scomparsa di questa pratica, lasciando, quasi inalterata, l’allestimento della tavola con i tre personaggi della Santa famiglia: Giuseppe, Maria e il Bambino.
FONTI: Ricerche di Rita Bevilacqua e fonti orali. TESTI: Fatima Giallombardo, La festa di San Giuseppe in Sicilia, Fondazione Ignazio Buttitta, 2006; Claudio Paterna, PERSISTENZA ARCAICHE NELL’ENTROTERRA, Novograf, 2010. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)
RITA BEVILACQUA