Siciliani e Sicilianità-“A scala di San Jabbicu” e la credenza popolare siciliana del trapasso

Siciliani e Sicilianità-“A scala di San Jabbicu” e la credenza popolare siciliana del trapasso

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“Prima di moriri a scala di san Jabbicu amma ‘cchianari”. Quante volte, dai più anziani, ho sentito pronunciare questa frase. Tutti conosciamo cosa sia “Il cammino di San Giacomo” che molti pellegrini intraprendono con curiosità e devozione. Ma cos’era questa scala? E cosa aveva in comune con San Giacomo?

Secondo una credenza siciliana, l’anima, dopo la morte e appena uscita dal corpo prima di andare incontro al suo destino, farebbe un viaggio salendo “A scala di San Jabbicu”, la scala di San Giacomo.

Il santo di cui parliamo è Giacomo Apostolo, detto il Maggiore per distinguerlo dall’apostolo Giacomo d’Alfeo. Secondo le tradizioni medievali, dopo la morte di Cristo, san Giacomo andò a evangelizzare il territorio peninsulare spagnolo, in concreto la regione del nordest, conosciuta in quel momento come Gallaecia. Dopo aver reclutato i sette uomini apostolici, che furono ordinati vescovi a Roma da San Pietro e ricevettero la missione di evangelizzare l’Hispania, l’apostolo Giacomo tornò a Gerusalemme, secondo i testi apocrifi, per accompagnare insieme ai grandi discepoli di Gesù la Vergine Maria al momento della sua morte. Lì fu torturato e decapitato nell’anno 42 per ordine di Erode Agrippa I, re della Giudea. Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea, i suoi discepoli trafugarono il suo corpo e riuscirono a portarlo sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell’anno 830 dall’anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro, avvisato di tale prodigio, giunse sul posto e scoprì i resti dell’Apostolo. Dopo questo evento miracoloso il luogo venne denominato “Campus stellae (campo della stella) dal quale deriva l’attuale nome di Santiago de Compostela, il capoluogo della Galizia.

Ritornando alla tradizione popolare, San Giacomo è collegato al concetto di “Via Lattea”: la via che conduce il pellegrino ad una immaginaria “Compostela” celeste. Molti popoli antichi l’hanno intesa come la via del cielo, la strada che i morti debbono percorrere per raggiungere il proprio destino ultraterreno. Nel mondo cristiano è detta anche Scala di San Giacomo, Ponte delle Anime, Cammino di San Giacomo perché tutte le anime, accompagnate dal Santo, devono salire lungo questo cammino dopo la morte. Come il cammino di Santiago termina ad una tomba, quella del Santo, così nell’immaginario popolare la scala di san Giacomo termina nell’aldilà.

«La morte è trascendere la condizione umana, è passaggio nell’oltretomba» scriveva Mircea Eliade del suo “Trattato di storia delle religioni”. Per questo in tutte le religioni che pongono l’aldilà in cielo o in una regione superiore, considerano la morte come un “passaggio”, una “salita”. Da qui il concetto di scala, intesa come cammino verso il mono ultraterreno. La scala permette l’elevazione, conduce verso l’alto.

Il viaggio dell’anima dopo la morte nuda e coi piedi scalzi dovrà avvenire attraverso la Via Lattea, che è una scala formata da pugnali, coltelli, chiodo, spine o spade. San Giacomo, che ne è la guida, scegli il momento quanto l’uomo, caduto in agonia, perde i sentimenti, sicché quell’uomo sembra vivo agli occhi del medico, dei parenti, ma in realtà è morto, perché l’anima sta compiendo il viaggio. Per il richiamo al Santo la Via Lattea è conosciuta anche come “Violu di San Jabbicu”. La fatica per la lunghezza del viaggio e le ferite, dovute al passaggio della Via Lattea, si materializzano nella sofferenza agonica, proiezione materiale della morte: sudore del corpo, o ultima lacrima della morte. Questo avverrebbe per il forte dolore causato dalle ferite inflitte ai piedi dal taglio delle spade. In un punto di morte, questo viaggio va fatto da tutti, se in vita non avesse adempito al precetto di recarsi in pellegrinaggio a Santiago. Non tutti possono adempire a questo precetto e, come scrive il Pitrè in ” Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”, siccome a tutto c’è un rimedio, i vivi si possono sostituire ai defunti nel compimento delle opere necessarie alla remissione delle pene oltremondane. Inoltre, il viaggio, inteso come pellegrinaggio penitenziale, poteva venire effettuato in un santuario minore che sostituiva uno maggiore come meta del pellegrinaggio.

Il fine ultimo del pellegrinaggio s’identificava nella mentalità popolare con il conseguimento di una liberazione da tutti i peccati e, quindi, con la possibilità di ottenere uno status sereno dopo la morte. Se andare in pellegrinaggio a S. Giacomo di Compostela (o, in un secondo momento, al santuario considerato equivalente) poteva significare per il peccatore un’assoluzione e se non si era avuta occasione di compiere in vita questo pellegrinaggio, esso veniva posticipato ad un periodo successivo alla morte, giacché avrebbe ugualmente conseguito il risultato di esonerare il peccatore dalle pene che egli avrebbe dovuto altrimenti scontare in purgatorio,

In questa ottica rientra il pellegrinaggio penitenziale alla chiesetta di san Giacomo a Scicli. Questa chiesetta, per la sua denominazione e per la sua dislocazione al termine di un sentiero particolarmente arduo che implicava anche, tra l’altro, l’attraversamento di un fiume, veniva a sostituire l’originario santuario di S. Giacomo di Galizia, cosicché il pellegrinaggio compiuto a S. Giacomo di Scicli poteva ritenersi a tutti gli effetti equivalente, ai fini dell’espiazione, a quello che i pellegrini compivano per raggiungere la Galizia.

Così le donne di Modica (RG), per evitare questo spaventoso viaggio dopo la morte, questo viaggio si possa anticipare in vita, u viaggiu di San Jabbicu, con un pellegrinaggio alla chiesetta di San Giacomo sulla fiumara di Scicli, che si trova ad un chilometro dall’abitato ed è difficilmente avvicinabile: per raggiungerla bisogna infatti attraversare una via aspra, tutta ciottoli, che rasenta un torrente asciutto. Sono soprattutto le donne a praticare questo rituale, che si articola in diversi momenti. a donna che desidera compiere questo viaggio, deve preparare, all’ora del vespro, dei maccheroni con un uovo e una manciata di farina. Nel frattempo, recita il rosario. Cuoce la pasta preparata e versa l’acqua in una crete spregiate. Poi la donna si spoglia tutta fino alla camicia, si siede dove a buttato l’acqua e mette sopra le gambe il piatto con la pasta. Dopo essersi posta una mantellina intorno agli occhi affinché non veda, la mangia. Poi va a letto, ma non può addormentarsi. Al rintocco della mezzanotte si alza, si toglie la camicia e nuda si avvolge in un lenzuolo lavato la mattina, e si incammina al viaggio. Non da sola, perché il suo viaggio sarebbe inefficace, ma con una comare che conosce da tre, da sei o da nove anni. Le due donne si incamminano silenziose. Durante il percorso non possono parlare, non possono voltarsi indietro e, una volta arrivate, bussano tre volte alla porta chiusa della chiesetta, prima con le mani, poi coi piedi e infine con la testa. Quindi si inginocchiano davanti alla porta d’ingresso, recitano nove paternostri, nove avemarie, nove gloria in onore del Santo, tre paternostri per l’agonia del Signore e un’ave, una salve regina alla Vergine Addolorata. A questo punto possono fare ritorno a casa, sgranocchiando il rosario. Sicure che, per loro, il viaggio “ultimo” sarà meno gravoso. E più agevolmente arriveranno alla meta. La tradizione vuole che questo viaggio si debba fare al mezzanotte tra il 24 e il 25 luglio (giorno in cui si festeggia San Giacomo il maggiore). Rito simbolico in cui si anticipa il viaggio della propria morte con un viaggio meno rischioso.

FONTI: Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano; Palermo, 1889¸ Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, 1976; Articolo di Annalisa di Nola, Il Passo di San Giacomo, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée, tome 103, n°1, anno 1991. (Foto web) RITA BEVILACQUA

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