Vogliamo ricordare la vicenda di “Catina a viddana” e della sommossa da lei capeggiata che si svolse a Barrafranca dal 22 al 24 marzo 1912.
La storia di “Catina a viddana” al secolo Maria Catena Balsamo s’innesta nella povertà che caratterizzava il paese di Barrafranca nel primo decennio del 1900. Le strade erano fangose, percorse da tanto in tanto da muli, cavalli e qualche carretto. S’incontravano bimbi scalzi, sporchi, e anche animali di ogni genere: galline, oche, maiali, cani. Le case erano piccole, umide, in gran parte senza intonaco, costituite da un solo locale dove i contadini dormivano con gli animali. La povertà era tanta e l’economia si basava sull’agricoltura: la sera si vedevano flotte di muli con sopra i contadini che tornavano dalle campagne dopo una lunga giornata di lavoro. Ma chi era “Catina a viddana” ? Maria Catena Balsamo era una fornaio che dai modi e dall’aspetto assomigliava più ad un uomo che ad una donna. Il marito era in carcere e i più anziani raccontano che vivesse con molti uomini. Era sempre pronta a scendere in piazza contro la prepotenza dei signori, impugnando la bandiera che teneva in casa e recandosi al comune per far valere i diritti dei contadini. Proprio per questo comportamento “vivace”, non comune ad una donna di quei tempi, veniva emarginata dalle altre donne. La vicenda che vede protagonista Maria Catena Balsamo fu lo scoppio del malcontento contadino dopo l’ennesima tassa che il sindaco di allora, l’avvocato Luigi Bonfirraro, mise a spese dei poveri già tartassati: la “tassa sul morto”. Una delibera riguardante i “Regolamenti d’igiene e di polizia mortuaria”, approvata dall’amministrazione guidata dal sindaco Luigi Bonfirraro, istituiva il servizio delle carrozze per il trasporto dei morti in cimitero, affidato alla ditta Giuseppe Corso. Entrato in vigore il 18 gennaio 1912, già da subito si rivelò troppo oneroso, in quanto i “becchini” che prelevavano il morto dalle famiglie per portarlo al cimitero, pretendevano il pagamento di una tassa, la “tassa sul morto” appunto. La gente, già esasperata dalla precedente “tassa di famiglia”, reagì e il 22 marzo inizia il lungo braccio di forza tra la popolazione e l’amministrazione comunale. I disordini continuarono la mattina 23, capeggiati da “Catina a viddana” che porta i rivoltosi ad assalire il comune al grido di:
“Pupazzu di canigghia
va leva li carrozzi
e la tassa di famigghia!”
riferito al sindaco Bonfirraro.
Circa tremila persone si diressero verso il municipio per protestare, tanto che la forza pubblica usò tutti i mezzi per indurre i dimostranti a sciogliere pacificamente la manifestazione, ma una parte di essi, capeggiati appunto da Catina che, stretta tra le mani la bandiera tricolore e accompagnata alcuni rivoltosi, soprattutto donne, si diressero al Municipio e forzata la porta, irruppero dentro alla rimessa delle carrozze. Rovesciatole in strada, iniziarono a danneggiarle, ma vennero bloccati dalla forza pubblica. I disordini degenerarono tanto che costrinsero l’amministrazione ad asserragliarsi entro le mura comunali. Allontanati dal Municipio, la folla si riunì nella piazza antistante, iniziando a buttare sassi verso le forze dell’ordine. Arrivarono anche i carabinieri a cavallo da Caltanissetta che, dopo varie lotte, sedarono la rivolta. Dopo tre giorni di duri scontri, i dimostranti riuscirono a far revocare l’obbligatorietà del trasporto con la carrozza, ma i capi della sedizione vennero tutti denunciati. Molti furono gli arrestati durante e dopo il tumulto. Tra questi anche “Catina a viddana”.
Per molto tempo si sentivano ragazzi cantare:
“Catina a viddana
purtava a bannera,
a stessa sira
a misiru in galera.
Catina a viddana
purtava a bannera
a minzu i surdati
pariva na dragunera.”
Un resoconto dettagliato di quei momenti si trova nel: “Giornale di Sicilia” del 26- 27 marzo 1912 e “L’Ora” di Palermo del 23-24 marzo 1912.
Rita Bevilacqua