Il segretario dell’Assostampa Enna, il giornalista Josè trovato durante in occasione dell’Assemblea provinciale tenutasi lo scorso 27 gennaio all’Università Kore di Enna ha relazionato su un anno di attività soffermandosi anche sulla libertà d’informazione.
Ecco la relazione.
Da poco meno di un mese si è chiuso un anno di lotte, in questa provincia come nel resto d’Italia, per il rispetto della dignità dei giornalisti e della libertà d’informazione. Affrontare questa battaglia, a Enna, significa lottare contro poteri di varia natura, che nulla hanno in comune tra loro salvo l’anelito di far calare il silenzio sui fatti più scomodi della politica, della cronaca, del costume. Uniti solo dal comune tentativo imbavagliare l’informazione, per non consentire alla gente di conoscere fatti che metterebbero in cattiva luce il proprio operato. Il diritto dei giornalisti di raccontare storie vere, presupposto riconosciuto dalla Convenzione Europea per i diritti dell’uomo perché si assicuri il diritto della gente di essere informata, viene messo a dura prova da sottili, o palesi, intimidazioni, da querele infondate, da azioni risarcitorie temerarie, da attacchi politici. Si assiste da tempo, in questa provincia, a un sistematico tentativo di delegittimazione degli organi di informazione.
Tutto questo è accaduto anche nel 2017. Un anno che, sul piano della difesa del diritto di cronaca, si era aperto alla grande, con la vittoria definitiva su tutti i fronti di una delle più importanti battaglie politico-giudiziarie che questo segretario ha condotto, sul piano personale e professionale, in questi anni, per il riconoscimento di un diritto inalienabile della categoria: la libertà di espressione, come stabilita dall’art. 10 della Cedu.
Ed è proprio da qui che voglio cominciare questa relazione annuale.
2017: la fine del processo Martorana-Trovato
Era il settembre di dieci anni fa quando, all’epoca giornalista pubblicista, scrissi un articolo sul Giornale di Sicilia, che faceva luce per la prima volta, un anno dopo, sulle indagini in corso per un omicidio avvenuto a Piazza Armerina. In quei giorni scoprii che quelle notizie, che non mi pentirò mai di aver pubblicato, secondo alcuni non dovevano essere di pubblico dominio, in quanto coperte dal segreto istruttorio. Dovetti scegliere da quale parte stare: da un lato il coraggio, la schiena dritta, il rispetto per le mie fonti, i miei lettori e la mia professione; dall’altro il formale rispetto di una legge incostituzionale e iniqua (l’art. 200 co 3 del codice di procedura penale) che ti costringe a rivelare la fonte delle notizie pubblicate anche se sei un giornalista professionista, ma a maggior ragione se sei pubblicista. La norma in questione stabilisce che il diritto al segreto professionale è garantito ai giornalisti professionisti iscritti all’albo, pur con alcune precisazioni di dubbia costituzionalità e di dubbio gusto (sei comunque tenuto a rispondere se un giudice lo reputa assolutamente indispensabile). L’esclusione formale dei pubblicisti comporta una limitazione dei diritti e una discriminazione, che da sempre considero intollerabile . Decisi di non lasciarla passare.
Ebbe inizio così una battaglia giudiziaria, in cui ho avuto al mio fianco sin dall’inizio l’avvocato Salvatore Timpanaro del foro di Enna (ex foro di Nicosia), autentico studioso del diritto, che ha deciso di sposare la causa della libertà d’informazione e sostenere la mia difesa, assieme agli avvocati del Giornale di Sicilia, i penalisti Gioacchino e Alberto Sbacchi del foro di Palermo. E abbiamo vinto. Perché dopo nove anni, il 16 febbraio 2017, è stata depositata la sentenza che ci dà ragione su tutta la linea. Un ex sostituto procuratore di Enna, in estrema sintesi, accusava me e la collega Giulia Martorana de La Sicilia – che ha pubblicato la stessa notizia lo stesso giorno, e che come me, dando prova di coraggio e professionalità, ha deciso di non cedere alle pressioni dell’autorità giudiziaria – di favoreggiamento personale nei confronti di ignoti. Partendo dal presupposto che dare notizie a un giornalista relativamente a quel procedimento configurasse una violazione del segreto istruttorio, sostanzialmente, noi giornalisti eravamo ritenuti colpevoli di favoreggiamento perché ci rifiutavamo di indicare nome e cognome della nostra fonte. “Ignoto 1”, per l’accusa, era un investigatore, magistrato, cancelliere, usciere o semplicemente pettegolo, che aveva osato violare i sacri sigilli.
Il 16 febbraio 2017 la prima sezione penale della Corte d’appello di Caltanissetta, presieduta da Andreina Occhipinti e composta dai consiglieri Giovanbattista Tona e Marco Sabella, ha pienamente accolto la tesi delle difese. L’Ordinamento della professione di giornalista, hanno scritto i giudici, non evidenzia “differenze di ordine qualitativo fra le prestazioni rese da un giornalista professionista e quelle rese da un giornalista pubblicista”, ma solo quantitative, che “non possono essere ritenute ostative ad una interpretazione estensiva della norma” sul segreto professionale. Per questo è ritenuto legittimo il rifiuto, anche da parte dei giornalisti pubblicisti, di rivelare l’identità della loro fonte. La sentenza cita l’evoluzione dell’ordinamento italiano in materia di segreto professionale, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e la sentenza della Corte di Giustizia europea sul cosiddetto “caso Goodwin”.
Una sentenza magistrale, un faro per i giornalisti che scrivono di cronaca, ebbi modo di dichiarare quel giorno. E oggi lo confermo: quella sentenza è ciò per cui abbiamo lottato, io e la collega Martorana, sin dall’inizio. Dicevano che non avevamo ‘diritto al segreto’ perché “solo pubblicisti”, e abbiamo scelto di lottare contro un’ingiustizia. In questo modo ha vinto la libertà di stampa. È una vittoria della democrazia.
Anche l’avvocato Timpanaro, in quella sede, ha espresso “grande soddisfazione”: “Una Corte attentissima – aggiunse il legale – ha in pieno accolto la nostra tesi giuridica, riconoscendo anche ai pubblicisti, e cioè ai cronisti che operano sul campo, il diritto di opporre il segreto professionale sulle fonti, che è condizione essenziale della libertà di stampa. Una sentenza storica, destinata a fare giurisprudenza a livello nazionale”.
Le querele infondate, le polemiche sulla segretezza degli atti e la convenzione con lo studio Timpanaro
È accaduto nell’ultimo anno che giornalisti di Enna si trovassero a dover fronteggiare querele per diffamazione assolutamente infondate. Lo strumento della denuncia per diffamazione, purtroppo, nel nostro territorio come nel resto della Penisola, viene visto come un metodo, immediato, per intimorire giornalisti o editori e ridurli al silenzio. Questa segreteria non ha mai difeso chi diffama le persone e non ha mai tollerato leggerezze professionali, disattenzioni o, peggio, mala fede, da parte dei cronisti. Ma siamo sempre stati al fianco di chi, senza averne alcuna colpa, anzi esercitando esclusivamente il proprio diritto-dovere di fare informazione, finisce al centro di azioni giudiziarie dal palese scopo intimidatorio. I giornalisti di questa provincia, lo diciamo a chiare lettere, si assumono le responsabilità di ciò che scrivono e hanno la consapevolezza dell’importanza di questa professione.
Da due anni – approfittando forse oltremodo della paziente e fraterna amicizia dell’avvocato Salvatore Timpanaro, a cui non abbiamo mai erogato, sinora, neanche un minimo contributo – è in atto la convenzione con lo studio legale Timpanaro and Partners di Nicosia. L’oggetto “è l’assistenza legale a titolo gratuito dei Giornalisti iscritti alla sezione ennese dell’Associazione Siciliana della Stampa”. Il nostro contributo minimo, che da quest’anno contiamo di cominciare a erogare, non è per nulla retributivo dell’impegno e della professionalità di altissimo livello messe a disposizione gratuitamente dallo studio, che ha accettato di venirci incontro “in considerazione degli scarsi mezzi finanziari di cui dispone questa sezione provinciale”. Di questo non possiamo che essere grati al nostro legale, la cui professionalità, la cui passione e il cui zelo sono sempre mirabili e encomiabili. Lo stesso avvocato Timpanaro, va ricordato, ha anche presieduto direttamente alcuni corsi di formazione professionale per i giornalisti di questa provincia, arricchendo l’uditorio di competenze in merito al difficile rapporto tra il diritto di cronaca e le persone coinvolte nei fatti di cui si narra, oltre che il problema delle fonti d’informazione.
Nel corso dell’anno 2017 il nostro avvocato ha accolto presso il proprio studio le vicende giudiziarie di alcuni giornalisti che si sono visti recapitare querele per diffamazione. Non si ha notizia dell’esito di tali procedimenti, ma anche questo – oltre a indiscrezioni che annunciano il ritiro di una delle suddette querele – fa ben sperare circa l’evoluzione di tali vicende.
Lo scorso anno, gli organi di informazione che operano in territorio ennese sono finiti al centro di un documento della Camera penale di Enna, critico nei confronti di alcune pubblicazioni di “notizie su vicende processuali di alcuni indagati che hanno avuto conoscenza degli atti a loro carico prima che a mezzo notifica, direttamente dalla stampa”. Una vicenda in cui non abbiamo preso, come Assostampa Enna, una posizione, ritenendo che il documento in questione potesse riguardare l’attività professionale di alcuni componenti di questa segreteria; ma sul tema sono intervenuti, con una nota congiunta, il segretario dell’Associazione siciliana della stampa, Alberto Cicero, e l’ex presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, Riccardo Arena, i quali hanno ricordato, con il massimo rispetto per il lavoro altrui, “che i giornalisti non fanno i cancellieri né i magistrati né gli investigatori e nemmeno gli avvocati: fanno i giornalisti e basta; e il loro lavoro – il nostro lavoro – presuppone che si diano notizie nel momento in cui queste si apprendono, se esse hanno rilievo pubblico e tanto più se, come in questo caso, sono conoscibili dall’indagato e dal difensore. Non siamo i custodi di presunti segreti e non accettiamo lezioni da parte della Camera Penale di Enna né il tentativo di zittire l’informazione”.
Non riteniamo di dover aggiungere altro.