“I miei genitori sono profughi da Zara, in Dalmazia. Sono venuti in Italia nel 1957, molto tardi. Non riuscivano a vivere sotto il regime comunista jugoslavo, che tuttavia da anni gli rifiutava l’opzione di andare via”. Quella che dà ad In Terris Marino Micich, direttore dell’Archivio del Museo Storico di Fiume, è una testimonianza tra tante, di figli di esuli del confine orientale italiano. Viaggi rocamboleschi, rischiosi, da parte di italiani che erano stati costretti da un destino tinto di terrore rosso a lasciare la propria terra. I Micich, come tante altre famiglie, girarono in lungo e in largo prima di trovare una sistemazione stabile: vennero prima mandati in un centro di smistamento ad Udine, poi andarono ad Aversa, in Campania, in uno dei 109 campi profughi allestiti nello Stivale, per poi arrivare a Roma. Ma proprio l’Italia, la nazione amata, si dimostrò spesso riluttante all’accoglienza. Le navi cariche di profughi di Istria, di Fiume e della Dalmazia viaggiavano accompagnate dall’oblio, quando non dall’ostilità di “certa propaganda legata al comunismo internazionale”, come l’ha definita ieri in Quirinale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Le foibe
Erano altri tempi, quelli seguiti all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’assenza di un controllo militare dell’Asse consentì all’esercito jugoslavo di occupare i territori del confine orientale e dar luogo a rappresaglie. La stella rossa giunse fino a Trieste, portando dietro di sé una scia di deportazioni, fucilazioni, affogamenti nell’Adriatico, soprattutto infoibamenti. Furono moltitudini coloro che, “rei” di essere italiani e di non accettare la dittatura socialista in casa, vennero gettati nelle foibe, cavità carsiche che possono raggiungere oltre 200 metri di profondità. Solo i più fortunati riuscirono a fuggire al di là del confine con l’Italia. “L’esodo è stata la risposta degli italiani di Fiume, di Zara e delle altre terre alla mancanza di libertà e alle persecuzioni da parte della Jugoslavia comunista”, spiega Micich. Una storia, questa, sottaciuta o quasi per almeno 50 anni; fino a quando, grazie alla perseveranza della comunità giuliano-dalmata, fu finalmente aperta una breccia di verità. Dopo una battaglia dentro e fuori dal Parlamento durata anni, nel 2004 venne istituito il Giorno del Ricordo, che cade ogni 10 febbraio, anniversario dei Trattati di Parigi del 1947 con cui l’Italia cedette alla Jugoslavia le terre di Istria, Fiume e Dalmazia.
L’importanza del ricordo
Questo riconoscimento ufficiale da parte dello Stato italiano fu accolto come una sorta di liberazione tra le vie discrete del Quartiere Giuliano-Dalmata, quadrante sud di Roma, a due passi dall’Eur. È qui che, grazie all’Opera per l’assistenza ai profughi giuliano e dalmati, si insediarono gli esuli che cercavano sotto il ventre della Lupa romana un riparo dal comunismo. Tra queste famiglie c’era anche quella di Marino Micich. Oggi, dopo una settimana passata come ogni anno ad offrire la sua preziosa testimonianza di esule e studioso agli studenti, il suo sguardo si volge all’indietro, a quando era bambino. “Del Villaggio Giuliano-Dalmata ricordo i padiglioni e la voglia degli adulti di vivere una vita normale. Da piccoli – racconta – respiravamo l’inevitabile disagio, ma per noi era importante soprattutto giocare. E poi i nostri genitori ci proteggevano dalle difficoltà”. Già, perché era tutt’altro che facile vivere da profugo in una patria ancora incapace di fare i conti con il proprio passato. Le difficoltà e l’avversione altrui servono però a cementare un popolo. E questo è valso anche per gli italiani del confine orientale. “Il senso d’appartenenza permane e si rafforza con gli anni che passano”, spiega Micich. “Noi figli di esuli – prosegue – abbiamo il compito di far conoscere la storia della tragedia del nostro popolo e tutelarla dalle distorsioni dell’ideologia”. Impegno, quello di raccontare quella pagina di storia contemporanea, che vede Marino Micich in prima fila ormai da molto tempo. Laureato in slavistica, scrittore, afferma: “Sono diventato direttore dell’Archivio del Museo Storico di Fiume (un patrimonio storico e culturale sorto grazie alle donazioni degli esuli, ndr) nel 2004, ma la mia collaborazione è iniziata già nel 1994 come ricercatore e archivista in maniera pressoché gratuita e volontaria”. Il 2004 è appunto la data chiave in cui si introdusse il Giorno del Ricordo, che il direttore ritiene “aver contribuito molto a squarciare la coltre di silenzio” sulla tragedia dei giuliano-dalmati, ma – avverte – “c’è ancora da lavorare, soprattutto nelle scuole”. A tal proposito – aggiunge – “esiste un tavolo del Ministero dell’Istruzione per favorire i seminari di studi per docenti su queste vicende dimenticate”. Del resto il pericolo del silenzio, o peggio, è sempre dietro l’angolo. “Per amore di verità storica – dice -, non bisogna lasciare spazio ai giustificazionisti e ai riduzionisti”. I giuliano-dalmati – conclude – “hanno rifiutato la dittatura di Tito ed è un fatto che dà ancora fastidio ai nostalgici del comunismo”